Forse i più giovani non lo sanno, ma il mitico logo della NBA, forse il logo più famoso del mondo a livello sportivo, non è stato partorito dalla fervida fantasia di un grafico pubblicitario ma dalla sagoma di un cestista tra i migliori mai visti al mondo.

Quel cestista si chiamava Jerry West, ed ha lasciato questo mondo proprio ieri, all’età di 86 anni, lasciando un vuoto indelebile negli appassionati di basket, non soltanto in quelli avanti negli anni. Infatti il mitico Jerry non soltanto è stato uno dei migliori cestisti mai visti, tanto che anche oggi è ancora il 25° marcatore all-time della Lega con i suoi 25.192 punti alla straordinaria media di 27,03 a partita, in questo superato soltanto da autentiche icone, come lui del resto, del basket a stelle e strisce: Michael Jordan, Wilt Chamberlain, Elgin Baylor, Kevin Durant e the GOAT, o forse no?, Lebron James.

Dicevamo, non soltanto grandissimo giocatore, poi ne parleremo, ma anche dirigente tra i più acuti ed intelligenti mai esistiti. Un uomo che, da general manager, ha dato vita ad una delle squadre più iconiche mai viste, i mitici Los Angeles Lakers che non solo hanno vinto cinque anelli negli anni ’80, ma lo hanno fatto con un gioco frizzante, basato sulla velocità e sul contropiede, quello divenuto nel tempo il leggendario Showtime.

Erano i Lakers di Kareem Abdul-Jabbar e del suo mitico “gancio cielo”, di Magic Johnson, forse il più grande playmaker mai esistito, di James Worthy, Byron Scott, Norm “The Storm” Nixon, Mark Landsberger e Michael Cooper, questi ultimi tre poi visti anche nel Belpaese.

Un dirigente visionario che, nel 1996, riuscì a capire prima di tutti gli altri la grandezza del sempre compianto Kobe Bryant, scritturato, da imberbe ragazzino, con il numero 13, creando, con la sua scelta, le basi per un’altra epopea meravigliosa dei Los Angeles, quella caratterizzata dal duopolio Kobe-Shaq – altra magia averlo convinto a lasciare Orlando per L.A. -, capaci di un clamoroso “Threepeat”, sotto la guida di un altro visionario come Phil Jackson.

Nella sua storia da dirigente, dopo una separazione non certo consensuale con i “lacustri” anche il grande lavoro con i Memphis Grizzlies, portati in appena due anni da squadra con uno dei peggiori record della lega a toccare, per la prima volta nella loro storia, le 50 vittorie, meritandosi, per la seconda volta in carriera, il titolo di “NBA Executive of the year”. Da ricordare, sempre da dirigente, anche le esperienze con i Golden State Warriors ed i Los Angeles Clippers che, annunciando la sua dipartita, lo hanno definito “la personificazione dell’eccellenza del basket e un amico per tutti coloro che lo conoscevano”.

Se da Dirigente ha scritto pagine importanti della storia della NBA, anche mettendosi di traverso ai dettami del proprio capo – esemplare la furiosa litigata con Jerry Buss, quando il magnate dei Lakers voleva scambiare, pensa te, James Worthy con Roy Tarpley di Dallas – altrettanto ha fatto da giocatore.

Play/Guardia dalla classe cristallina, ha legato tutta la sua carriera ai Los Angeles Lakers diventandone il simbolo negli anni ’60 e ’70. Tanto per rendere l’idea vanta 14 – quattordici !!!! – convocazioni all’All Star Game, ed è stato capace di realizzare 53 punti, con il gustoso contorno di 10 assist, in una finale NBA.

Da giocatore, il suo palmares è stato inferiore a quanto avrebbe meritato, perché i suoi Lakers sono incappati in quella che è stata la dinastia probabilmente più dominante nella storia della lega, quella dei Boston Celtics di Bill Russell; non a caso i sogni di Jerry West di infilare al dito l’anello di campione NBA si sono infranti per ben sei volte in finale contro le verdi casacche dei “Celtici”.

Per sfatare la maledizione, dopo aver vinto, nel 1969, caso più unico che raro, il titolo di MVP delle “Finals”, pur militando nella squadra perdente, dovrà aspettare la stagione 1971/72, appena due anni prima del suo ritiro. Un campione assoluto, capace non solo di segnare quasi 30 punti a sera, ma anche di creare gioco sfornando assist a ripetizione ai propri compagni, e di prendersi, e spesso realizzare, il tiro decisivo, tanto da essere soprannominato “Mr. Clucth”.

Accanto a quell’anello trovano posto nella sua personale bacheca un titolo olimpico, nel 1960 a Roma, e l’oro ai giochi panamericani, l’anno precedente a Chicago.

Appese le scarpette al chiodo, West diventò coach dei Lakers, portandoli ai playoff dal 1976 al 1979, per poi svestire la tuta ed indossare giacca e cravatta, l’uniforme che per anni ha caratterizzato la figura dei più illuminati dirigenti mai visti nel dorato mondo della NBA.

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