Si può diventare un mito della pallacanestro americana, sia di quella fucina di talenti che è la NCAA sia quella tutta lustrini e paillettes della NBA, saltando 800 partite per infortunio delle potenziali 1140?

Si può, a patto di chiamarsi Bill Walton, uno dei più grandi centri mai visti sui parquet di tutto il mondo. Un giocatore che, se non fosse stato fermato dai tanti, troppi, infortuni, avrebbe riscritto la storia di uno sport nel quale i miti sono quasi tutti di colore, basti pensare a Michael Jordan, a Lebron James o a “Magic” Johnson.

Bill ci ha lasciato, sconfitto da una grave malattia contro la quale lottava da tempo. Ci lascia un’eredità fatta di tanto basket, ma anche di tanto carisma ed altrettanto anticonformismo. Forse il primo grande campione che ha fatto parlare di sé non soltanto per le prodezze sul parquet, ma anche per le sue esternazioni, mai banali, anche su temi al di fuori del basket. Bill, infatti, parlava di tutto, di razzismo, politica, economia e, anche, di guerra, non a caso si schierò apertamente contro la Guerra in Vietnam.

A raccontare il suo carisma, la sua popolarità, la sua innata empatia anche i tantissimi messaggi di cordoglio apparsi sui social di tanti personaggi importanti del basket a stelle e strisce e non solo, tra cui quello dell’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama che non esita a definirlo “uno dei più grandi giocatori del mondo, un campione sotto ogni aspetto”, poche parole perfette per tratteggiare uno dei giocatori più forti mai apparsi sui parquet di tutto il mondo. Del resto, stiamo parlando di un centro che non esitava a saltare un allenamento per recarsi ad una manifestazione a favore dei più sfortunati, fossero essi agricoltori o operai.

Ma che tipo di giocatore era Bill Walton? Un centro fenomenale, dotato di una tecnica sopraffina, probabilmente uno dei migliori passatori mai apparsi in quel ruolo, per intenderci una sorta di Sabonic o Jokic ante litteram. Del resto, stiamo parlando di un cestista incluso nella Hall of Fame NBA, e nella lista dei Top 50 di sempre della Lega, nonostante i tanti infortuni che lo hanno colpito.

Proprio gli infortuni hanno rappresentato il fil rouge attraverso il quale si è snodata tutta la sua carriera, tanto che proprio il buon Bill ci scherzava sopra, definendosi il “giocatore di basket più infortunato della storia”, senza andare troppo lontano dal vero. In questo senso parlano le 38 operazioni chirurgiche subite, le 21 viti nel suo corpo per risolvere i problemi, tanti, troppi, a caviglie, anche, ginocchia e schiena.

Al di là dei tanti problemi, però Bill è riuscito comunque a lasciare il segno, e che segno, fin da quando era ancora un imberbe ragazzino, basti ricordare i due titoli NCAA vinti da protagonista con UCLA, uno dei quali giocando una finale da far strabuzzare gli occhi, chiusa con 44 punti all’attivo, frutto di un fantasmagorico 21/22 dal campo, con in panchina un altro mito del basket statunitense, John Wooden

Ovvia la chiamata al numero 1 del draft 1974, da lì è iniziata una carriera nell’Olimpo del basket mondiale fatta di tanta gloria ed ancor più numerosi infortuni, che in talune occasioni lo hanno costretto a saltare l’intera stagione. Nonostante i problemi fisici, però, il californiano di La Mesa ha portato a casa due titoli NBA, uno con i Portland Trail Blazers ed uno con i Boston Celtics, ed il titolo di MVP stagionale nel 1978.

Appese le scarpe al mitico chiodo, si è riciclato in perfetto opinionista televisivo, continuando a lavorare fino a che la malattia glielo ha consentito, con grande riservatezza, il che suona strano nel mondo social di oggi, ed invece Bill ha scelto di spegnere la luce, la sua luce, lontano dai riflettori, quei riflettori che lo hanno accompagnato per tutta la vita, sul parquet ma anche fuori dal parquet, per le sue esternazioni, spesso e volentieri non certo “politically correct”.

Una famiglia, quella dei Walton, con il basket nel sangue, non a caso il figlio Luke vanta una discreta carriera NBA con i Los Angeles Lakers ed i Cleveland Cavaliers, prima di intraprendere la carriera di allenatore, ruolo nel quale è stato prima assistente di Steve Kerr nei Golden State Warriors e poi head coach dei Los Angeles Lakers e dei Sacramento Kings.

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